L’intervento dello Stato nell’economia si manifestò fin dalle antiche civiltà (esistono documentazioni risalenti ai regni mesopotamici) ma, l’effetto dell’azione dello Stato in campo economico si ha solo quando si passa dallo Stato assoluto, dove i sudditi non godevano di diritti ed erano soggetti alla volontà del sovrano, agli Stati costituzionali.
Anche alcuni filosofi come San Tommaso d’Aquino espressero il loro parere sull’attività di prelievo tributario, egli sosteneva che il carico fiscale dovesse essere distribuito fra le classi cittadine in base ad un criterio di giustizia e che la spesa pubblica doveva venire incontro alle necessità sociali.
Dopo la metà del XXVIII secolo con l’affermazione della scuola fisiocratica nasce la prima teoria sul ruolo dello Stato: “poiché un ordine naturale
governa il sistema economico e la terra è la sola produttrice di ricchezza, lo Stato deve ridurre al minimo il suo intervento per non turbare l’ordine naturale, quindi l’imposizione deve minimizzare e colpire solo il reddito prodotto dalla terra (imposta unica sulla terra).”1
Queste teorie antiche oggi hanno solo un valore storico ma ci fanno capire quale sia stata l’evoluzione del concetto di intervento dello Stato sull’economia , si passa infatti da teorie fortemente limitative dell’azione dello Stato in campo economico, a teorie secondo le quali l’azione dello Stato diventa fondamentale per regolarizzare l’economia nel suo insieme.
Nel corso dell’Ottocento e del Novecento si sono susseguite teorie economiche, politico-economiche inerenti all’intervento Statale in campo economico.
Ogni sistema economico, in qualsiasi modo esso sia organizzato, ha come finalità ultima il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi e il raggiungimento del benessere sociale. La funzione dello Stato nel sistema economico non si limita alle attività di produzione, consumo, distribuzione ma, consiste nel fissare le regole di funzionamento del sistema economico stesso.
In base alle decisioni in materia economica e alle relazioni che si stabiliscono tra i soggetti, lo Stato può adottare diversi “modelli organizzativi”, così, a seconda del modello organizzativo adottato, il sistema economico si distingue in:
- Sistema liberista (o capitalistico)
- Sistema pianificato (o collettivista)
- Sistema misto
SISTEMA ECONOMICO LIBERISTA
In questo sistema le imprese sono di proprietà privata e sono libere di scegliere cosa e quanto produrre secondo le richieste dei consumatori. E’ un sistema competitivo in cui le aziende cercano di “catturare” il consumatore offrendo prodotti che abbiano caratteristiche interessanti (prezzo, qualità, assortimento, confezione, ecc..). Lo Stato non interviene a regolare le fasi di produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi ma, si limita a garantire funzioni di tipo politico e sociale, prestando servizi di tipo collettivo (ordine, giustizia, difesa). Un esempio sono gli Stati Uniti d’America.
SISTEMA ECONOMICO PIANIFICATO (O COLLETTIVISTA)
In questo sistema lo Stato decide cosa e quanto produrre e le richieste dei
consumatori non influiscono in maniera significativa sulle scelte di produzione, ogni attività è di tipo pubblico e l’iniziativa è ridotta e comunque sotto controllo delle autorità centrali. Lo Stato interviene nel regolare le fasi di produzione, distribuzione e consumo, per tanto, oltre a svolgere le classiche funzioni di tipo politico sociale, assume su di sé
anche le funzioni economiche. Ne erano un esempio gli ex Stati dell’Unione Sovietica.
SISTEMA ECONOMICO MISTO
Questo sistema economico, prevalente in Europa, abbina i caratteri del sistema liberista a quelli del sistema pianificato. Le imprese sono libere di scegliere cosa e quanto produrre secondo le richieste dei consumatori. Lo Stato interviene nei settori che considera strategici e in quelli dove le imprese private sono assenti o presenti solo in parte. Nel sistema misto, adottato nel nostro paese, lo Stato ha anche la funzione di controllare le imprese per evitare che si verifichino situazioni in cui, altre imprese o i
consumatori stessi, possano essere danneggiati.
Di seguito alcuni esempi delle teorie più circoscritte:
- Teoria del consumo: secondo tale teoria i tributi pagati allo Stato sottraggono risorse ai privati, questo genera la distruzione della ricchezza perché aumentano i consumi pubblici diminuendo gli investimenti produttivi.
- Teoria dello scambio: secondo cui i tributi sono il pagamento dei servizi pubblici resi dallo Stato e quindi hanno la natura di un prezzo pagato dai privati per ottenere il servizio. Tra ciò che viene pagato e i servizi offerti deve esserci un equilibrio per cui l’attività cessa se viene meno l’equivalenza tra i tributi pagati e i servizi ottenuti.
- Teoria della produzione: I servizi pubblici resi dallo Stato consentono ai privati di produrre beni e servizi, quindi, l’attività finanziaria pubblica è vantaggiosa perché consente un aumento dei beni disponibili per la collettività mediante la crescita delle sue capacità produttive. Questa teoria era stata sviluppata da studiosi tedeschi che, preoccupati dal ritardo dell’industria nazionale rispetto a quella inglese, richiedevano
l’intervento dello Stato per difendere le iniziative economiche interne contro la concorrenza estera.
- Teoria politica: Proposta da Benvenuto Griziotti, un economista italiano, sosteneva che l’attività finanziaria pubblica dello Stato, altro non è che la manifestazione della sua sovranità ed ha carattere politico in quanto, le figure al suo interno, sono politiche, lo Stato stesso e gli strumenti usati, ossia i tributi, che devono essere obbligatoriamente pagati per legge.
- Teoria sociologica: formulata da due importanti studiosi italiani, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, considera l’attività finanziaria pubblica come lo strumento usato dalla classe dominante per conservare il potere. Questa, distribuisce il carico tributario a proprio ed esclusivo interesse, dando però l’illusione ai cittadini di operare a favore della collettività, da qui nasce la cosiddetta teoria dell’illusione finanziaria. Secondo l’italiano Amilcare Puviati infatti l’attività finanziaria si accompagna ad “erronee valutazioni degli scopi, dei vantaggi e delle conseguenze della spesa pubblica e degli oneri del prelievo fiscale”. Nello schema di Puviani, l’“Illusione finanziaria” praticata ai danni del contribuente riguarda la spesa pubblica (“ignoranza dell’uscita effettiva di certe somme dalle casse pubbliche” “ignoranza sul vero impiego delle spese”), ma anche le entrate. Il cittadino infatti è indotto a peccare per “ignoranza della qualità delle entrate pubbliche; ignoranza della quantità delle prestazioni tributarie; ignoranza della loro durata; ignoranza degli effetti penosi remoti delle imposte; calcolo inesatto degli effetti penosi
immediati del tributo”. Infine, con estrema preveggenza, Puviani già all’inizio del Novecento metteva in guardia dal ricorso truffaldino al debito pubblico: “Ultima specie di illusioni sulla persona del contribuente è costituita dall’apparente liberazione dei contribuenti attuali con un preteso trasferimento di gravami sui contributi futuri. E’ il caso dell’indebitamento, con cui si ha l’illusione di impegnare delle risorse future, senza tener conto che quando si contrae un prestito si ha una riduzione di patrimonio corrispondente”2. Per debito pubblico di intende il debito che lo Stato ha nei confronti di soggetti economici nazionali o esteri, quali banche o imprese o Stati esteri che hanno sottoscritto un credito allo Stato comprando obbligazioni o titoli di Stato. Lo scopo dell’emissione di tali titoli è quello di finanziare il deficit pubblico, ossia il divario fra spesa pubblica ed entrate.
Riferimenti:
1 Manuale scienza delle finanze, Esselibri S.P.A., Casoria,2001
2 http://www.brunoleoni.it/cos-i-la-crisi-spinge-monti-a-svelare-l-illusione-fiscale
A. Carinci, T. Tassani, Manuale di diritto tributario, edizione 2018